Martino Ciano su “D’Argilla e neve”

Guarda adesso come trema la voce/che sillaba il nome di questo paese/ho creduto che fosse il centro del mondo/e così son partita e tornata ogni volta/un ostaggio alla terra e alla gente/radice sepolta tra il pero/e un cielo d’inverno 

A una poesia non bisognerebbe chiedere nient’altro che la prima impressione, anche se racconta di momenti sedimentati, di ricordi e di nostalgie. Maria Pina Ciancio lo fa; imprime su carta le sue sensazioni come se fosse la prima volta. Infatti, sempre vivo è il suo riconoscersi tanto una “scacciata” quanto una “fuggitiva” dalla sua Basilicata.
I suoi componimenti parlano di queste sensazioni, così lontane, così vicine, così simili. Cinque poesie sono anche in dialetto; stanno lì, alla fine del libro, come a ricordare una lingua gioiosa che, ora, risuonando fa percepire ancora più forte il dolore per il distacco. Sappiamo bene, noi del Sud, cosa sia questo sentimento difficile da fotografare, da spiegare.Potrebbe sembrare un “pianto” ma di quelli patetici, o addirittura finto, come quello delle prefiche, che venivano pagate per versare lacrime sui morti. Invece, non è così; esso racchiude una preghiera di protezione, per ciò che è stato lasciato, e di speranza, affinché nessuno debba sentire il peso dell’andare via; a patto che non sia una libera scelta.
Ciancio è nata a San Severino Lucano, paese del potentino, in cui i monti e il terreno argilloso si mischiano con la neve. E proprio la neve, nei ricordi dell’autrice, non porta solo il gelo, ma anche la pace e la convivialità. Lei torna a casa, con la stessa urgenza che la smuove alla partenza. E proprio in questo andirivieni, le prime impressioni cambiano e si mettono al servizio della poesia.
Non abita tra queste pagine la protesta, o meglio, essa non è espressa chiaramente; piuttosto è un sottofondo, un riverbero che testimonia l’eterno ritorno. C’è umiltà in questo “sussurrare il dissenso”, perché non è “speciale” il suo destino, bensì appartiene a tanti. Infatti, la lucana Maria Pina scrive di passaggi nel continuo “andare via e tornare”; cattura le cose che ricompaiono all’orizzonte della memoria, proprio lungo quella linea in cui dimenticanza e nostalgia si uniscono come il cielo e il mare. Diventa vasto, quindi, lo scenario da cui si può attingere. Così immense si fanno le strade della vita che gettano la poetessa nella angoscia.
Ecco i monti, la neve, la casa, le strade, la campagna, gli approdi sicuri che testimoniano la sua presenza in terra lucana. Ma per coloro che restano, chi migra, anche silenziosamente, sembra una persona cara ormai estinta e che, per questo motivo, non deve più tornare dal regno dei morti. C’è quindi una macchia indelebile su chi ha deciso di “cambiare casa”, si chiama la colpa della fuga.
Ecco perché questi versi sono così ancestrali. Qui non c’è sentimentalismo, solo la tragedia nella sua accezione dionisiaca, ossia senza misura, senza regola, senza rigorosità. Sfida la poetessa sé stessa, perché forse avrebbe voluto sentire il peso delle proprie radici abitandovi, invece anche lei è condannata a rimpiangere ciò che è stato reciso ed è rimasto monco.A firmare la prefazione al libro è stato Andrea Di Consoli, lucano come Maria Pina Ciancio, anche lui con una “storia simile” che ispira, consapevolmente, una condizione ormai accettata, ma con cui è difficile fare pace per davvero.

Articolo apparso su Border Liber

1 thoughts on “Martino Ciano su “D’Argilla e neve”

Lascia un commento