Renzo Montagnoli su ‘Tre fili d’attesa’

La plaquette è un libriccino di poche pagine e in pochi esemplari tutti numerati, generalmente impreziosito da una stampa su carta di particolare qualità. In pratica è quello che si potrebbe definire un opuscolo, ma con finalità diverse, a seconda dei contenuti. Nel caso di Tre fili d’attesa, donatomi da Maria Pina Ciancio, è in effetti una presentazione di alcuni suoi riusciti versi che rientrano nella poetica dell’autrice, volumetto accompagnato anche da una stampa dell’artista Stefania Lubatti, un astratto policromatico.

C’è anche una presentazione di Anna Maria Curci con cui praticamente il lettore viene reso edotto del perché del titolo della plaquette. Si tratta di un breve componimento che è parte dell’opera, i cui primi due versi sono comprensibili, in quanto espressi in italiano, mentre gli altri sono nel dialetto del paese natale di Maria Pina Ciancio, San Severino Lucano.

Per esperienza posso dire che il dialetto sovente rappresenta meglio ciò che si intende dire, a patto ovviamente di conoscere il relativo vernacolo. Nel caso specifico “a bona sciorta / nu’ lavoro ca cuta / u cappatiempo ca vene sempre chiù lontano” è un detto popolare che comprende quelle che sono le speranze e i desideri della gente, come esplicitato nel piccolo glossario parte integrante dell’opera (la buona sorte / un lavoro redditizio / l’inverno che arrivi sempre più tardi.). Ma allora che senso ha parlare di attesa? Non dimentichiamo che la terra d’origine della poetessa è madre di emigranti, gente che parte e poi ogni tanto ritorna per poi di nuovo ripartire, mentre altre volte, soprattutto quando l’età è avanzata, il ritorno è definitivo. Così il tempo si divide fra andate e ritorni, una durata fra le une e gli altri che è di attesa. A chi come me non ha necessità di emigrare il tempo non si misura con i giorni che mancano a tornare, né con l’ansia che precede quelli della partenza; del resto la Lucania, come quasi tutte le regioni del Sud, è da sempre terra di emigrazione. E’ poco il lavoro locale, le retribuzioni sono quasi sempre inadeguate e per vivere si deve andare, si devono lasciare quelle radici che in epoche migliori dovrebbero avvinghiarsi al terreno. Resta sempre, anzi ancor più vivo, l’amore per la propria terra, sebbene ingrata.

Non ho letto molto di Maria Pina Ciancio, ma quel poco, dato dalla silloge Storie minime e da questa plaquette, testimonia, oltre che dell’amore viscerale per la propria terra, la sofferenza intima di essere schiavi della necessità di lasciarla per poter vivere. E allora anche quel poco che può dare la tua terra sembra tanto, assume un valore che agli occhi di altri potrebbe sembrare superfluo, ma che invece è predominante in chi disperatamente si aggrappa al ricordo di case, di viuzze, di gente di paese, del proprio mondo. E’ in tal caso che si ha occhi per guardare con tenerezza cose che sfuggono a chi è sempre lì e mai se ne va (Dopo la festa i vecchi sono angeli / e conservano ancora il rossore del ballo. / Stanno aggrappati agli orli delle case / e non dicono nulla / per un giorno si dimenticano il freddo / e la paura del sonno che non viene. ). Quanta tenerezza in pochi versi, quanto amore per queste testimonianze di un luogo e di un tempo, perché i vecchi sono ciò che è stato, sono i portatori del testimone delle proprie origini, rappresentano sul palcoscenico della vita la commedia del passato, sono gli emblemi di un tempo e consentono di ricordare da dove si viene, placano la nostalgia, colmano i cuori, danno la speranza di essere lì, fra loro, un giorno in futuro.

Là c’è una patria che aspetta, un paese che non fa rumore d’inverno, un tempo irreale di attesa che inizia con la neve e sempre tre fili di attesa (la fortuna, una miglior retribuzione e la speranza che tardi l’inverno).

Il tempo che corre fra una partenza e un ritorno al paese, quando non si deve emigrare, passa senza che ce ne accorgiamo, è per noi un tempo fermo, è quello in cui è solo il trascorrere delle stagioni che ci avverte che un anno se n’è andato.

Non vorrei però che Maria Pina Ciancio fosse per questo etichettata come “locus poeta”, perché l’amore per il proprio paese non è disgiunto dall’anelito per il riscatto di una gente da troppo tempo disperata, con un accento netto sulla coscienza civile che ci è stato dato di riscontrare in un altro poeta lucano, Rocco Scotellaro, morto troppo presto e anche lui cantore di una miseria che sembra tuttora senza speranza.

Una riflessione su Tre fili d’attesa di Maria Pina Ciancio di Renzo Montagnoli su Arte Insieme, 06/03/20232
https://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=81&det=24484

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Rosaria Di Donato su ‘Tre fili d’attesa’

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». (Cesare Pavese, La luna e i falò).

Forte è il legame che unisce l’Autrice a San Severino Lucano, anche se è nata in Svizzera, dove lei rinviene le sue origini esistenziali profonde. È il suo un canto senza tempo che narra il legame ancestrale con un luogo “sospeso”, nascosto alle cronache, ai media e lontano dai social: quasi una favola antica, un mito che ripropone la vita semplice, essenziale di un paese rurale del Sud. “Tre fili d’attesa”, detto popolare lucano, racchiude l’essenza e il significato di una dimensione antropologica contadina di un mondo ancorato al ciclico corso della natura e al senso tragico dell’esistere: rassegnato all’ineluttabile. “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno”(pag. 11). Eppure vibrano i versi nel dare vita alle storie di persone e di  cose che custodiscono un vissuto sapienziale conteso tra la vita e la morte, tra il tempo della festa e quello ordinario. C’è un brivido che accende come un vento le vie del paese, i suoi muretti, le stanze delle case e percorre le vene del lettore che si ritrova in Gennaro e Vincenzino, in zio Pietro e la sua casa”pittata” di rosso, in Antoniuccio Vito e Mariuccia, Marietta e Giacomino, Antonella e il suo pallone “rincorso” dai cani…a sussurrare tra le pieghe del tempo:”…a bona sciorta / nu lavoro ca cunta / u capattiempo ca vene sempre chiù luntano” (pag. 8). La stampa di Stefania Lubatti impreziosisce il Quaderno poetico n. 1 di M. P. Ciancio stampato in 65 esemplari firmati e numerati. Resilienti, la poesia e l’arte pittorica si fondono in un abbraccio che rischiara il passato nell’attesa che le radici fioriscano.

Rosaria Di Donato

Nota di lettura su Lettere Migranti di A. M. Curci

Teresa Armenti su “Tre fili d’attesa”

Delicato, raffinato ed elegante. Originale, autentico e misterioso, con il sigillo rosso scarlatto in ceralacca.

Così si presenta il florilegio “Tre fili di attesa” di Maria Pina Ciancio, come uno scrigno tenuto nascosto nel cassetto per 15 anni, ora quasi timoroso di presentarsi al lettore, a cui si raccomanda di aver cura, nello sfogliarlo, delle carte pregiate ed ecologiche Favini.

La raccolta, che si apre con una citazione di Cesare Pavese sui luoghi natali, è una perla incastonata tra la dettagliata introduzione di Anna Maria Curci e l’efficacenota di Abele Longo, trasformata in visione pittorica dalla stampa di Stefania Lubatti.

Le pagine si lasciano teneramente accarezzare, si aprono a ventaglio e ti avvolgono in un’atmosfera vellutata, dove, in balìa del vento, si mescolano ricordi, stati d’animo, sensazioni. La poetessa ti prende per mano e ti trasporta lungo i vicoli stretti del suo paese, che di mattina odorano di fresco e di pulito, ti fa sentire l’odore del pane appena sfornato, ti presenta quadretti di vita quotidiana, con le ringhiere dei balconi rovinate ,popolata da volti che hanno un nome. Gennaro e Vincenzino, avvolti da volate di fumo, trascorrono il tempo in attesa; zio Pietro, immerso nel passato, sta seduto davanti alla casa dipinta di rosso con il legno del bastone sotto il mento.

Antoniuccio Vito, invece, ha preferito lasciare la vita con una corda appesa al collo e Giacomino appena nato è salito al cielo. C’è chi parte e non torna più, come Vituccio e chi resta aggrappato agli orli delle case, come i vecchi stanchi e chiusi nei loro ricordi. Padre e figlio si siedono a cena intorno a un tavolo, ma il primo mastica lentamente e il secondo ha fretta di andare. Non c’è l’incontro tra le generazioni, che si ignorano a vicenda senza affrontare i loro problemi. Il silenzio domina dovunque soprattutto d’inverno e di notte viene disturbato dal latrato di un cane. C’è un’umanità dolente e rassegnata, nido sfilacciato sull’albero d’inverno. La poetessa delinea, così, il profilo dei piccoli paesi lucani… (…).

Teresa Armenti

L’articolo continua qui: https://insubriacritica.blogspot.com/2022/12/tre-fili-di-attesa-di-maria-pina.html

Lorenza Colicigno su “Tre fili d’attesa”

(…)
Le undici pagine di Tre fili d’attesa sono scrigni di immagini fisse nelle memorie di un’infanzia e di un’adolescenza non individuali, ma collettive, i protagonisti e le protagoniste di queste avventure minime sono attori di eventi cosmici, la coperta rossa che fa da scena alla morte di Giacomino e al seccarsi del livato non è forse la metafora della nostra società, che, arcaica e primitiva da un alto, ipertecnologica e ipercolta dall’altro, è pur inchiodata all’inevitabilità della fine, la fine, oggi tanto più precoce, della nostra madre Terra, di cui neppure sappiamo assumerci la responsabilità.

Le immagini dolenti, a volte, crude, altre volte, sempre appassionate, sempre coscienti del dolore, della rassegnazione, della solitudine dei vecchi con la schiena stanca / appoggiata al muro delle case, che si raccontano storie condivise/di veglie e sogni mai saziati, incontrano la consapevolezza che tempi diversi non potranno mai incrociarsi: Padre e figlio s’incontrano a cena / intorno al tavolino / uno mastica lento, l’altro va di fretta / per non inciampare in quel tempo dilatato / e fermo negli occhi di suo padre /che straripa sul cuscino / disegnando rivoli di storie / e ombre inquiete sul suo viso.
(…)

Lorenza Colicigno

L’articolo continua sul Quotidiano “Talenti lucani. Passaggi a sud” qui

Maria Allo su ‘Tre fili d’attesa’

Tre fili di attesa, a cui allude il titolo della nuova raccolta di Maria Pina Ciancio, sono le attese e i legami non solamente tra le persone, ma i legami alla terra, a un paese, ai ricordi, alla storia. L’autrice lavora, nelle diverse forme del suo impegno, intorno a due nuclei: realismo e simbolismo. È infatti sempre presente la realtà connessa all’infanzia, alla solitudine, al mito dell’indistinto in fondo alla nostra coscienza, alla terra a cui si riconnettono i riti delle stagioniche permangono nella memoria come indelebile matrice esperienziale, ma la realtà è sempre vista in chiave simbolica, viene trascolorata in immagini metaforiche che connettono i dati del reale a trame più complesse. La ricerca di un’intimità con la natura spinge l’autrice ad addentrarsi nel paese natale, San Severino Lucano, luogo della purezza, che racchiude la verità e non impone delle scelte ma disegna le coordinate del tempo dell’attesa, come dice Anna Maria Curci nella nota introduttiva: “Abbiamo tre fili d’attesa / annodati al calendario del camino /: a bona sciorta / nu’ lavoro ca cunta // u capattiempo ca vene sempre chiù luntanu” (p.8). Ecco la buona sorte, un lavoro che vale, l’autunno che arriva sempre più tardi, nella cultura popolare e nel mondo arcaico e contadino emergono come depositari di un senso dell’esistenza ormai perduto nella condizione alienata della società. Scrivere, come dice Pavese, è spostarsi lungo un percorso continuo tra l’io e il mondo, resta sempre partire dalla realtà, dal dato storico-sociale, personale o collettivo, saranno poi il linguaggio, il ritmo, la qualità fantastica a operare la trasformazione grazie alla quale s’intrecciano altri nessi, analogie, similitudini, metafore. Alle parole scritte è affidato il compito dunque di ricompaginare la solitudine in una comunione: Talvolta basta uscire per strada/ per riannodare gli orli/ sfilacciati di un pensiero” (p.6). A partire da questo,il cammino dell’autrice diviene sguardo all’invisibile di un Sud mitico “non fanno rumore i paesi d’inverno/ e il giorno e la notte passano zitti” ( p.8) o ”Le parole dette bene in paese/ sono peccati senza riparo/ un gatto randagio/ da scacciare a pedate per strada” (p.9) e cura delle cose e degli altri “ Qui i vecchi hanno la schiena stanca/ appoggiata al muro delle case/ e si raccontano storie condivise/ di veglie e sonni mai saziati”(p.9) con gli stessi occhi con cui ci si sofferma a considerare, pieni di stupore, il divino di boschi, alberi, rane e farfalle , paesi. 

Continua su FaraPoesia qui: FARAPOESIA (edizionifarapoesia.blogspot.com)

Su Gradiva una recensione di Michele Brancale ad “Assolo per mia madre”

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La recensione del giornalista Michele Brancale sul n.51 della Rivista GRADIVA – International Journal of Italian Poetry:  Maria_Pina_Ciancio_Gradiva_n_51_2017

L’indice della rivista n.51 Spring 2017: Indice_Gradiva_n_51

https://www.olschki.it/riviste/9

Assolo per mia madre. Una corrispondenza d’amorosi sensi

(Una recensione di Teresa Armenti) assolo per mia madre, maria pina ciancio

Alla poesia di Maria Pina Ciancio bisogna avvicinarsi in punta di piedi, accarezzare delicatamente la copertina, accostare l’orecchio agli spazi vuoti delle pagine e porsi in ascolto. Allora, cullati da un melanconico sottofondo musicale, ci si trova immersi nel paesaggio lucano, tra il profumo dell’erba spettinata dal vento nell’aria concava di luce e i campi di grano. Dalla “terra di luce ed ombra, infeconda e fertile” la parola prende forma tra singulti, sospiri e briciole di vita.
Si staglia, netta, la figura della madre, con la sua gonna larga, lo sguardo increspato, i capelli raccolti in un velo di lacca e la fronte aperta al sole, mentre aiuta la figlia, mano nella mano, a guadare il fiume e a percorrere sentieri irti. E alla madre, salita al cielo il 4 gennaio 2012 all’età di 72 anni, è dedicata l’intera raccolta di versi misti a prosa, fatta di sguardi fugaci, di silenzi, di sorrisi, di soste e di riprese. Il ritmo cambia tono quando i ricordi dell’infanzia cedono il passo alla grammatica dolorosa della sofferenza. Subentra la paura, il disorientamento, la lotta contro il male, che sembra debellato, ma dopo anni si ripresenta, esplodendo in tutta la sua crudezza, senza via di scampo. Ai luminosi orizzonti si contrappone un buio fermo tra le bianche pareti di impotenza, mentre il tempo non passa mai. I versi diventano preghiera, invocazione, attesa. E si spera fino all’ultimo.
Il pianto dell’anima irrora le pagine e contagia anche il lettore, ma viene subito asciugato dallo spettacolo dei gerani fioriti in giardino senza preavviso. La “corrispondenza d’amorosi sensi” del Foscolo si avverte in modo tangibile. La presenza invisibile della madre accompagna la figlia di giorno, di notte e quando attraversa la valle del Sinni, che “brucia spalancata a mani aperte” dentro “una ferita di ghiaccio”.
Il florilegio della Ciancio, pubblicato nel mese di settembre 2014, in 199 esemplari di carta pregiata numerati a mano, dall’Arca Fenice di Salerno, con grafiche di Giuseppe Pedota, suscita profonde ed intense emozioni, sviluppando una forte empatia; è “evocativo e vocativo”, come ha sottolineato Lucio Zinna nella prefazione; da assolo si trasforma in dialogo, che cerca un amoroso contatto con l’assenza, come ha evidenziato Mario Fresa nella sua testimonianza critica.
È la nenia che la figlia sussurra con tenerezza alla madre, mentre varca la soglia.

Teresa Armenti

Fonte: La Siritide

Assolo per mia madre. L’amore incondizionato e l’irripetibilità degli affetti

(Una recensione di Marina Minet al mio ultimo libro)

Se dovessi spiegare a un fanciullo la bellezza e l’impegno dell’amore incondizionato, la raccolta “Assolo per mia madre” dell’autrice Maria Pina Ciancio (Edizioni L’Arca Felice, 2014), coinciderebbe pienamente con l’importante necessità di dovermi appellare alla poesia in ogni sua forma.
“In mezzo al grano l’alba nasceva/ sui passi silenziosi di mia madre” (pag. 9).
La sua è una poesia completa che nutre l’anima. Un canto profondo che si concede senza insicurezze e che non lascia spazio a ostentazioni. Conforto e arricchimento, ed esempio di rara sensibilità epocale.
“Tutta la valle stanotte/ è dentro una ferita di ghiaccio/ che brucia spalancata/ a mani aperte” (pag.25)
Una poesia che avvalora senza consuetudini la purezza del quotidiano, rendendolo esigenza universale e fondamento di quella memoria interiore, che ci rende tutti figli senza tempo.
“Avvicina una mano e lo sguardo e cercami ancora bambina/ solo un istante solo una volta/ per l’ultima volta” (pag.36); “Vorrei abbracciarti adesso, invece corro/fortefortissimo tra lenzuola d’aria/ e grumi di pensieri ancora acerbi” (pag. 40). Continua a leggere

Monia Gaita sulle “Storie minime”

dal blog Farapoesia
una recensione di Monia Gaita

“Ridecifrarsi senza abdicare alle proprie radici”

Storie minime di Maria Pina Ciancio ha il rigore d’ordine e di norme interne della poesia scotellariana cui si ricollega  non solo per la comune postazione geografica d’appartenenza (ambedue gli autori sono lucani), ma anche per certi indicatori contenutistico-semantici che permettono alle parole di uscire dai triti rigagnoli della prevedibilità o dalla troposfera di un nostalgico revival passatista. Le liriche offrono un fotoreportage accortamente rifinito e partecipato di piazze, vicoli, strade e stagioni su cui, a ricanalizzare le vie del perduto e di sofferte emigrazioni “Evaporano i sogni e dentro i sogni/ v. pag.18 /la storia di mio padre/ quella di valigie di cartone cotte al sole/ trascinate a mani strette/ dentro vagoni  neri di carrubi…/e un cartello straniero che fa ombra/ al taglio della sera in mezzo alle ginestre”  “Le partenze e i non ritorni –pag.16- sono cicatrici lunghe e oscure da curare” ci pensa l’eufòrbia ricorrente dell’amore compiuto ma periclitante per luoghi offesi da mutamenti tossìnici quanto speditivi. L’amore per il Sud ambisce a riconciliarsi con tutta un’intrigante assonometrìa di riti, usanze, tradizioni che la modernità ha travolto, sostituendo all’affetto autentico e genuino tra le persone, una disontogènesi relazionale di vuoto e incomprensioni. La riconoscibilità non è piena se il vomere delle partenze (anche degli elementi naturali) sèguita a lacerare l’identità di un popolo o se a marcare i lidi dell’oggi è sempre più l’incanto intatto e levigato del trascorso “ …Ce li portano via gli alberi, –pag.31- ad uno ad uno/ come gli uomini/ ma siamo troppo stanchi per accorgercene” “…Si sono spaccate le tegole rosse. E sono finiti i tempi in cui mio nonno ne faceva ripari per le chiuse e mattoni cotti al fuoco per l’inverno –pag.30-” Nella odierna civiltà trasmutatrice Maria Pina Ciancio fruga e trafuga dai diaframmi separati dei paesi l’albumina di bellezza superstite, semicoperta spesso da sovrimposte sembianze architettoniche in stridente rottura con l’anima antica dei “muri”, delle “tegole rosse”, dei “fiori benedetti”, dei “granai”, delle “ombre dei panni stesi per strada che profumano di vita insieme al pane”. La poetessa quindi, sovviene alle trighe dello smarrimento e dell’alienazione conseguente con una forte volontà a ritenere il salvabile raccogliendo i frutti di un lungo, pròdigo, ispirato lavoro di dedizione. L’istmo che congiunge il mondo di ieri e quello attuale s’adorna anche dei grandi poeti che ci hanno preceduto e Rocco Scotellaro a cui è dedicata la compositǐo fanalino di coda della raccolta, dovrebbe costituire la partitura etica, morale e di rinascita civile di un’intera comunità. Dopo aver letto questo libro capirete che non sono affatto mìnime le storie raccontate e che accanto al bacino glaciale dei “non ritorni”, il tentativo di ridecifrarsi senza abdicare alle proprie radici, va oltre il fósco degli espropri rivendicando il diritto a un’esistenza consapevole nell’estuario storico di ciò che fummo e ciò che siamo diventati.

Monia Gaita

E. Sirangelo sulle Storie minime

APOLLINEA – Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino (diretta da Mimmo Sancineto)
Anno XIII -n.6 novembre/dicembre 2009

Recensione a cura di Emilia Sirangelo (dalla relazione tenuta a Castrovillari il 13 settembre 2009):

(cliccare sulle immagini per ingrandire le pagine dell’articolo)

Le Storie minime sul “Corriere Fiorentino.it”

Nella rubrica “Esercizi di Stile” a cura di Gabriele Ametrano de il Corriere Fiorentino.it è apparsa oggi una recensione alle “Storie minime” del poeta e giornalista Michele Brancale.

Il link di riferimento per chi volesse leggere l’articolo:

http://esercizidistile.corrierefiorentino.corriere.it/2009/10/il_ritorno_poetico_di_maria_pi.html

A. Gnerre sulle “Storie minime”

Sulla rubrica dello ” Scaffale letterario” del Il settimanale cattolico – Il Ponte dell’Irpinia in data 11-7-09 è apparsa una recensione  alle “Storie minime” dal titolo: “Quelle valigie di cartone cotte al sole” (a cura di A. Gnerre)

emigrazione

•   scarica il PDF qui  Il ponte dell’Irpinia, Storie minime di M. P. Ciancio

• oppure per una migliore visualizzazione consulta la pagina Fara blogstop

(recensione – biografia – testo poetico scelto)