2 settembre 2009
Di Assunta mi mancherà la voce e le telefonate (mattutine soprattutto) fitte fitte di condivisione di vita, più che di poesia e di letteratura. La mia neve e la sua neve. Così come le prime belle schiarite di primavera. Perché i nostri paesi, così abbarbicati sui crinali interni dell’Appennino Lucano, avevano in comune l’altitudine e l’esiguo caparbio perdurare della vita. L’affanno e la fatica di difendersi dal freddo e dal vento sferzante che frusta e batte l’anima talvolta, insieme al corpo. “Ha nevicato stanotte!” “Qui abbiamo 20 centimetri di neve e continua a fioccare!” oppure “comincia a cedere il ghiaccio, sai?”, “anche da me le temperature sono salite, ma appena un po’, avrei voglia di uscire e passeggiare lungamente…” mi diceva. E la nostra poesia era dentro il raccontarsi le giornate, la quotidianità talvolta scarna ed essenziale, fatta di piccole cose e di silenzi. Fierezza e tenacia dentro una fragilità d’anime. Resistenza riconosciuta. Bisogno di andare sempre oltre e sorridere di una battuta gergale o di un verso, che Assunta inaspettatamente improvvisava quando il tono si faceva troppo greve e anche la vita a volte. “A volte provo odio-amore per la mia terra, ma nonostante i sentimenti conflittuali di cui parlo, alcuni miei versi non sono altro che un canto d’amore verso di essa: … sope a panze na nzerte de fiure janghe / de quere amata terra putendine …sul ventre un serto di fiori bianchi / della mia amata terra potentina… Sono sicura che tutta la mia poesia nasca da questo terremoto interiore”. E’ uno stralcio dell’intervista sulla poesia, che Assunta mi rilasciò nell’autunno di due anni fa per il magazine LucaniArt. E lo fece per lettera, come una volta, perché non amava il computer, se non per ricopiare i suoi versi. Negli ultimi tempi soprattutto, dalla sua casa di San Fele in provincia di Potenza, comunicava attraverso il filo di un telefono. Di amici ne aveva tanti Assunta. A Roma, a Milano in tutta Italia. Le volevamo bene ovunque, come ad una sorella.
Nelle poesie che mi spedì nell’ottobre del 2007 (edite in rivista), volle farmi condividere la malattia attraverso l’anima dei versi. Scoprii, leggendole, la terribile ed estenuante lotta che portava avanti contro il cancro. L’abisso interiore e devastante che le lancinava terribilmente il petto “è grande è grande è grande/ l’abisso in cui mi sono ritrovata/ è cisterna di olio per una formica/ la giungla indiana per un merlo cieco”. E ne amai la fatica. La forza interiore (quella che cercavo anch’io come figlia per mia madre).
Assunta l’avevo conosciuta nell’estate di tre anni fa, e dalle letture di alcuni versi (Scurije acquistato presso l’editore LietoColle, ed altre poesie sparse sul web e in rivista) me l’ero figurata, chissà perchè, una donna robusta, dura, dal carattere caparbio, distaccato e inaccessibile. Quando la incontrai, mi abbagliò una cascata di capelli rossi e ricci che coronavano un volto di donna esile ed energica, emozionale ed allegra. Gesticolava enormemente Assunta, con le mani, il viso, gli occhi. Visitammo insieme una mostra fotografica di Pier Paolo Pasolini, esposta in una sala del Palazzo ‘Giustino Fortunato’ di Rionero in Vulture, poi restammo in giro con amici fino a tardi. Quella sera comprò degli orecchini ad un banchetto e ci coinvolse tutti nell’acquisto. Amava i monili, quelli artigianali soprattutto. Al braccio portava un braccialetto “porte-bonheur” con tanti piccoli cornetti tintinnanti di colore rosso corallo.
Il giorno successivo, prima della partenza, passammo a salutarla nella sua casa di San Fele. Ne fu felice; voleva cucinarci gli spaghetti e che restassimo. Visitammo insieme il paese dentro i vicoli, poi ci spostammo in un punto esterno, distante e panoramico. San Fele ci era di fronte, tutto, una cascata di case bianche, con la luce che scorreva a fiotti sui tetti e per le strade.
Da allora ci siamo sentite spesso. Non le piaceva parlare della sua malattia, non le piaceva la retorica, né il pianto o il vittimismo, solo alla poesia –che le fu riparo e dono- affidava il peso del suo tormento – solitudine (come lei stessa ebbe a scrivere qualche anno prima in una nota).
Ma a qualche altro si era affidata Assunta: “quanne venghe preparateme nu liétte / nde pozze dorme tranguille e aspette / u juorne d’u giudizzje aunite a vvuje” (Amelia e Anna, Marina e Sylvia/ quando verrò preparatemi un letto / che possa dormire tranquilla e aspetto / il giorno del giudizio insieme a voi).
E a noi piace pensare e sapere che sarà felice così, tra i poeti che amava e quell’angelo di fronte all’albero di casa, a cui un tempo chiese custodia e riparo nei suoi versi…
Maria Pina Ciancio