Un’intervista di Griselda Doka sul tema della migrazione nelle ‘ Storie minime ‘

“Storie minime” è stato il libro vincitore del Premio Internazionale di Poesia della Migrazione “Attraverso L’Italia 2014”. L’intervista che segue si è tenuta in occasione della serata di premiazione, al Ridotto del Teatro Rendano di Cosenza, il 7 dicembre 2014.

D. Tutti abbiamo apprezzato la profondità e la sensibilità delle sue Storie minime. La raccolta sembra essere ambientata in quelli che lei definisce “luoghi dell’anima”, che ripercorre e riporta alla luce seguendo con pazienza una traccia interiore alla quale si somma la sua esperienza personale. Le vorrei chiedere come questa personale esperienza migratoria arrivi a ridefinire la percezione stessa dei luoghi che descrive.
R. La Lucania è la terra del sud dove sono ritornata negli anni ’70 e dove fin da quand’ero giovanissima, viaggio alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza (paesi, vicoli, piazze, fiumare, boschi, calanchi), quelli solitamente trascurati dai flussi turistici e di massa, in un percorso di riappropriazione dell’identità e delle radici. Ecco, credo che quest’esperienza e un grande amore per i nostri luoghi, mi ha consentito di restare e di non ripartire ancora.

D. Lo spaesamento − spiega in un passaggio − ecco cos’è: un tempo in cui le mani non sanno più se stringersi a pugno o fermarsi distendersi a ramo sul cuscino; l’idea residuale che la poesia ammette sembra essere quella di una realtà riconducibile alle cose estranee, quasi dominata da esse. Come queste cose partecipano al suo modo di scrivere?
R. Dopo aver vissuto l’emigrazione degli anni ’70 (come figlia di genitori emigrati all’estero) e il difficile ritorno nei luoghi d’origine, mi sono ritrovata a vivere la nuova emigrazione del 2000 che ha (ri)spopolato i nostri paesi del sud. Uno spopolamento e uno svuotamento di anime e di cervelli questa volta. Questo libro racconta l’emigrazione vista con gli occhi di chi resta e non il contrario, come solitamente accade. Lo “spaesamento” di cui scrivo è lo smarrimento, il silenzio, la dimenticanza, la lotta -a tratti disperata- tra impotenza e speranza, resa e riscatto.

D. La sua attività di poetessa è già ricca e articolata. Come sta cambiando la sua poesia rispetto ai suoi esordi e alle raccolte precedenti? Quali sono i fattori che − eventualmente − hanno indotto tale cambiamento?
R. Le primissime esperienze di scrittura sono state più intime ed ermetiche, poi, la “terra” e il nostro “sud” hanno iniziato ad essere il filo conduttore di tutti i miei scritti. Lo sguardo si è fatto più lucido sulla realtà e sul mondo che ci circonda. Non si può vivere qui senza aver fatto i conti con il sentire collettivo che ci circonda. Né “La ragazza con la valigia” ho interpretato la marginalizzazione sociale ed umana del ruolo delle donne, in “Storie minime” l’emigrazione di ieri e di oggi dai nostri paesi.

D. So che lei è molto attiva nella promozione della scrittura, sia attraverso le sue diverse pubblicazioni e le partecipazioni a giurie prestigiose e sia con l’attività di LucaniArt. Ci vuole descrivere più in dettaglio le attività di questa associazione e il ruolo che ricopre all’interno di essa? In che modo questa attività si lega alla sua idea di poesia?
R. L’Associazione Culturale LucaniArt che nasce nel 2007 dall’incontro di un gruppo di amici con la passione per la letteratura e la poesia ha lo scopo di promuovere e diffondere sul territorio regionale e nazionale l’arte, la letteratura e la cultura lucana, mirando soprattutto alla contaminazione e alla divulgazione delle opere dei giovani talenti nel campo della poesia, del romanzo, dell’arte pittorica e fotografica. Si avvale di un sito web autogestito, dove si condividono esperienze, si promuovono attività riflessione, di confronto e di scambio. Da qualche anno l’Associazione opera anche attraverso un nuovo progetto letterario, la pubblicazione di plaquette letterarie artigianali a carattere conoscitivo e divulgativo di autori lucani e non solo.

D. Nella postfazione di Massimo Sannelli si legge che la sua poesia è riconducibile a uno “stile-passione praticato”, simile alla poetica di Rocco Scotellaro. Che importanza assume sul piano identitario e poetico questo riferimento dichiarato alla poetica del grande scrittore di Tricarico?
R. Potrei dire che Rocco Scotellaro è un poeta che ammiro fortemente, così come altri grandi padri spirituali del nostro sud, ma sarebbe riduttivo. Rocco Scotellaro, in quanto figlio della nostra terra lucana è uno scrittore che sento in modo innanzitutto fraterno, per il suo stare “dentro le cose” e per la sua esperienza attiva e di vissuto in questa terra condivisa, che conserva ancora accanto alla modernità, forti tratti di tradizione ed arcaicità.

D. Infine, quali sono i suoi progetti in ambito culturale e letterario? Ha in cantiere altre raccolte?
R. Mi piace condividere con voi la notizia che dopo cinque anni di silenzio è appena uscita la mia nuova raccolta poetica per i tipi dell’Arca Felice, dal titolo “Assolo per mia madre”.

(a cura di Griselda Doka, Dottoranda di Ricerca presso Università della Calabria )

fonte: http://migranzeletterarie.wordpress.com/

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Un articolo di Michele Brancale su Il Portolano (n.60/61)

IL PORTOLANO – Periodico trimestrale di letteratura
Ed. Polistampa – Anno XVI Gen-Giu 2010 n.61-62, E.8
(articolo a cura di Michele Brancale, p. 36)
Scarica il pdf della rivista qui: Il Portolano n. 60/61

(cliccare sull’immagine per ingrandire)

Abitati dentro da un paese e da una valigia. Le storie minime di Maria Pina Ciancio

da La casa dei doganieri
Rivista di libri, lettere, arti – Anno II numeri  2-3, Firenze maggio dicembre 2009
Direttore responsabile: Vincenzo Crescente, lacasadeidoganieri@alice.it

Abitati dentro da un paese e da una valigia.
Le storie minime di Maria Pina Ciancio

La sensibilità di Anna Ventura interpretò il tema del distacco in questi termini: “Non chi parte ma chi resta parte davvero”. Maria Pina Ciancio, al contrario di quelli che sono partiti, è nata in Svizzera ma è poi tornata nella terra d’origine, la Basilicata, dove oggi vive. Basilicata o Lucania? Già nella scelta del nome della regione, si coglie il tema di fondo del suo ultimo e intenso bel libro di poesie, dal titolo Storie minime (Fara editore), con il quale conferma il suo notevole talento letterario e la sua scrittura, libera dal versificare barocco e autoreferenziale. Ne avremo prova anche nell’antologia Il segreto delle fragole (Lieto Colle, a cura di Luca Baldoni e Elio Pecora), in corso di pubblicazione, alla quale Ciancio partecipa affrontando il tema de “L’Italia e la fatica di amarla”. In ‘Storie minime’ il tema di fondo è lo “spaesamento” ( “Lo spaesamento, ecco cos’è:/ un tempo in cui le mani non sanno più/ se stringersi a pugno/ o fermarsi/ distendersi a ramo sul cuscino”).
La scelta semantica sottolinea la dimensione esistenziale di quella realtà che è “il paese”: nel mondo urbanizzato, dove dal 2007, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città, questa dimensione che assurge quasi a parametro bucolico nelle regioni dello sviluppo storico, ha altrove e in modo diffuso i tratti scarnificati delle pareti scolorite, delle fessure nei muri, delle strade vuote e battute dal vento, dei paesi da cui troppi – per mille motivi – sono partiti e pochi sono restati partendo davvero, cercando un senso, per quelle strade, al loro restare lì. Dopo un po’ ci si accorge che “le pietre della casa sono grandi libri chiusi/ hanno polvere spessa lungo i bordi/ e ci nascondono alla vista i fantasmi/ e l’ombra sfilacciata di noi stessi”.
E’ significativo che aleggi tra questi versi lo spirito solare e sfortunato di Rocco Scotellaro che cantò e interpretò col suo vivere l’emancipazione del paese e dei suoi abitanti, semmai pensando a un rientro di chi era partito quando quelli che restavano erano comunque tanti. E tuttavia già lui fece esperienza dello spaesamento, quel “capostorno” rimasto a metà, assopito a Pozzuoli (“Io sono un filo d’erba/ un filo d’erba che trema./ E la mia patria è dove l’erba trema”). Partì anche lui, ma questo è un tema che esula dalla ricerca di Ciancio. La domanda di fondo è: “Che senso mi do in questo luogo dove – per mille motivi speculari a quelli di coloro che sono partiti – devo restare?” La risposta è forse più presente nel precedente La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), partita e ora ritornata. Ma qui, nelle Storie minime, Maria Pina non lo dice. Prima ci sono quelle strade dove alla porta si bussa per aprire sapendo che ci apre il fantasma di chi ci era ieri, talvolta quelli che ci hanno generato ed amato. E’ lo spaesamento perché gli altri abitano nella nostra testa ma non li possiamo abbracciare, se non con il cuore. In Ciancio, in particolare, la figura del padre, nel suo ricordo e nella sua presenza-assenza, si unisce al timore di restare senza traccia. Resiste la vita insieme al pane, le preghiere e gesti di tenerezza.
“Voglio vivere nel mondo, non dietro un muro, voglio vivere nel mondo, non dentro la mia testa”, cantava, non molti anni fa, un artista sensibile come Jackson Browne. Non è facile:

“Mi abitano i paesi spopolati/e il vento – scrive Ciancio – la luce che scorre in un istante/ e frana nella crepa dei calanchi/ nella carne”. Nelle lunghe giornate invernali “ci assale la nebbia nella piazza spopolata/ a smussarci i contorni e gli spigoli degli occhi”. Giornate nelle quali, anche d’estate, “… facciamo percorsi lunghi/ per ritornare sempre all’inizio…”.

Il paese è quello delle alture, è una sorta di montagna incantata, dove si rincorre l’epica del ricordo: “Da quassù – scrive Maria Pina – non sappiamo pensarlo/ né amarlo il mare/ Abbiamo bisogno di appoggi e ripari/ (un albero, un sasso, un nido di poiana)/ di ascoltarci a distanza/ il rumore dei passi.
Altrove l’autrice osserva: “I nostri paesi sembra che a volte non hanno più sguardo. Li attraversi di giorno, di notte, al mattino presto, tra le case chiuse, le piazze spopolate, nei vicoli che sanno ancora di neve, e senti nell’aria la lama lucida e spietata della resa… Ci siamo dimezzati” (prosa 1). C’è un tratto generazionale, condiviso da quanti hanno oggi intorno a quarant’anni e che sono figli dell’emigrazione, che portano nel cuore la presenza di più mondi e di più tempi e, volenti o nolenti, sono costretti alla ricerca di una loro composizione. Per chi ritorna in paese, l’impatto è pesante, soprattutto con quelle consuetudini che sembrano non potere essere scalfite. “A quarant’anni ecco cos’eravamo:/ quelli fuori dal coro, fuori dal giro/ fuori da tutto/ qui non importa a nessuno chi sei/ importa soltanto con chi stai”. Tanti sono partiti e quando ci si conta “manca sempre un legno e un nome”.
E’ un libro bello quello di Maria Pina Ciancio, perché, oltre ad essere ben scritto, è composto di pagine che non fingono, che sono vere. E’ la testimonianza di chi cerca sé negli altri e per fuggire il demone spaesante del ricordo, deve prima guardarlo in faccia per giungere a cacciarlo, dissiparlo. 18 i testi, di cui due prose e quattro poemetti (il I in 10 parti; il II in 11; il III in 6; il IV in 9). Altra era invece la struttura de La ragazza con valigia: tre sezioni, con le nove poesie de Lo sguardo di terra annodato alla luna, le quindici de Il filo delle rondini nere di ritorno e le tredici de Il premio della luce. Ci sono storie di destini ma anche di vite che sanno dire no al programma tracciato, a causa del quale nelle case “il presente è sempre altrove” e le carezze sempre senza cura.
Nina, ad esempio, “viveva sola e si burlava/ delle mie paure e dei miei amori/ La cercai dappertutto… a trent’anni la scoprii col cappotto/ che spiava il Mondo dalla serratura della porta” o Fabrizia che “ha diritto a stare zitta/ o a naufragare tra i contorni/ generosi del rossetto/ non era ancora l’alba quando perse sua madre/ un mazzo di chiavi arrugginite/ nel catalogo delle amiche/ di suo padre”. Un’altra protagonista solitaria vive, come su accennato, nelle stagioni sospese del tempo (un rischio evidenziato in Storie minime), una storia come questa: “Stese panni biancoazzurri/ al filo delle rondini nere/ di ritorno/ e rimase immobile, scarmigliata dal vento/ i capelli e i vestiti graffiati/ da carezze senza cura/ chissà perché in quella casa/ dai tetti rossi/ il tempo del presente/ era sempre altrove”.
C’e’ anche una “ragazza con la valigia”, quasi un ritratto dell’ingenuità che vince il destino e che presiede al racconto delle vite di Adalgisa e Carla, Nina e Marta e, ancora, di altre otto figure femminili. Carla, in particolare, che “era sempre stata/ una brava moglie/ casa-lavoro casa-lavoro/ routine, parenti, litigi,/ ma un giorno di marzo/ il vento le prese il grembiule/ e lei lo rincorse felice/ e senza rimorso”.
Non c’è fatalismo in Maria Pina Ciancio, ma il ritratto di chi il fatalismo lo ha accettato o subìto e la prospettiva di chi lo ha rigettato, conseguendo “il premio inaspettato della luce”, proprio come quella ragazza con la valigia che “scese dall’autobus… e sorrise/ con le mani lievitate di terra e luna/ sorrise”.

Michele Brancale

D. Cipriano sulle “Storie minime”

Su La Nuova del Sud di ieri,  sabato 25 luglio 2009 (p.22),  è apparso un articolo-recensione di D. Cipriano alla silloge  “Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro” dal titolo «I dialoghi dell’appartenenza lucana».

la nuova del sud, 25 luglio 2009

(clicca sull’immagine per ingrandire)

Un poesia tratta da ‘La ragazza con la valigia’ su Il ponte dell’Irpinia

IL PONTE
Settimanale Cattolico dell’Irpinia
Anno XXXV – n. 20
Sabato, 23 maggio 2009

Mapi

Nella rubrica ‘Lo scaffale Letterario’ (p.14) a cura di Antonieta Gnerre è stata pubblicata una mia poesia tratta da ‘La ragazza con la valigia’ (Ed. LietoColle 2008).

Riferimenti
http://www.ilpontenews.it/

Tra i versi della Ciancio l’emblema degli ultimi e dei deboli

Quale che sia oggi il suo ruolo, della poesia continuiamo ad avvertirne il fascino discreto e tenace e dunque – pur da prosaici e volenterosi discepoli di un facile materialismo – continuiamo ad apprezzarla se non addirittura a cercarla. Pochi sono, tuttavia, coloro che hanno il coraggio di crearla e farne l’interesse centrale della propria esistenza. E’ così invece per Maria Pina Ciancio che ha recentemente pubblicato per i tipi della LietoColle, nella veste preziosa dei Libriccini da collezione, la raccolta di liriche dal titolo La ragazza con la valigia (2008).

L’autrice che ha saputo, nel tempo, rivelarci il dono prezioso delle sue emozioni più intime e profonde senza mai inclinare al gioco verbale fine a se stesso, ancora una volta, appunto con La ragazza con la valigia, è riuscita a catturare il lettore con la musicalità naturale dei suoi versi e a irretirlo in un’ intrigante trama di immagini in cui ognuno può rispecchiarsi o riscoprirsi.

Se a una prima lettura quello che più colpisce è proprio la naturale musicalità dei versi della Ciancio, non si può non essere indotti a esplorare la polisemicità che ogni singola parola custodisce e che solo in parte rivela nella sua dimensione letterale. Di qui il sapiente, ricercato gioco delle analogie finalizzato a svelare il senso più profondo che è dato cogliere in ogni esperienza.

D’altra parte La ragazza con la valigia presenta, rispetto alle precedenti raccolte, significative novità. Qui la poesia tende ad oggettivarsi attraverso ritratti di donne che svelano, nel susseguirsi di brevi scene significative, la loro umanità ferita.

Sin dalla prima lirica della raccolta si chiarisce l’intento dell’autrice che delinea la figura di una viaggiatrice – la ragazza con la valigia, appunto – “che parte e ritorna ogni notte” senza mai separarsi dagli stracci – i pensieri, i bisogni ma anche le mille storie di cui nutre occhi e cuore – a stento trattenuti nella valigia; la donna rivela, nello “sguardo di terra annodato alla luna”, il dissidio interiore tra la sua natura terrena e l’inesauribile aspirazione all’eterno. In versi come questo l’analogia non è un inganno retorico, ma riduce all’essenza una storia universale, come un fotogramma che sottrae alla dissoluzione del divenire una abrupta epifania della verità.

Nel suo viaggio la poetessa riscopre se stessa attraverso l’amarezza che scaturisce da aspirazioni negate, incomprensioni che escludono dal flusso stesso del vivere. Davanti ai suoi occhi si intrecciano i destini spezzati di chi non ha la possibilità di ritornare alla sua casa – “una spranga alla porta / e la luna spaccata con l’ascia” è quello che resta a chi ha osato rompere il patto che stringe un mondo che fonda se stesso su regole morte – o di chi ha scoperto che aprire il flusso dei ricordi obbliga a chiudere in fretta il passato dietro a un “chiavistello sfibrato a doppia mandata”.

Altrove la sensazione di sconfitta deriva da immagini immerse in un tempo indefinito, sospeso in luoghi onirici; poche note di colore, dai contrasti forti e definiti, bastano a creare l’atmosfera densa in cui presente, passato e futuro, fondendosi, smettono di succedersi nel loro naturale svolgimento

maria pina ciancio

maria pina ciancio

e si trasformano in una condizione di stasi che sembra non trova soluzione: “…quando il vento si alzava, / e urlava a più voci / sbattevano le porte di quella stanza rosa / dove tutto era fermo (presente e domani) / e i pensieri un rovescio…”. Il tempo non si svolge e non risolve il dolore neppure quando il “filo delle rondini nere di ritorno” si staglia contro i “panni biancoazzurri” stesi ad asciugare nel vento che scarmiglia i pensieri. Il passato si sovrappone al presente fino ad annullarlo: “chissà perché in quella casa / dai tetti rossi / il tempo del presente / era sempre altrove”.

I tempi sospesi si incontrano sulla stessa imbottita rossa dove un’ombra delicata del passato – zia Marietta – caratterizzata da un gesto: “lievitava la pizzicata del pane nero” – sembra, per un attimo, fermare il dolore con la sua pacata presenza. Spesso è infatti proprio il passato, che si affaccia con immagini che hanno il sapore di miti antichi o di figure ancestrali, a offrire un fuggevole appiglio alle esistenze amare delle donne evocate nei versi. Esistenze che – sia chiaro – non esauriscono il loro significato nell’appartenenza all’universo femminile: sono piuttosto l’emblema degli ultimi, dei deboli schiacciati da convenzioni e patimenti.

E’ appena il caso di sottolineare, infatti, che l’impressione che si ha scorrendo questi versi è di attraversare le vicende, senza tempo e senza confini di cultura o di sesso, di quanti vivono il dissidio tra desideri e frustrazioni e che chiedono alla vita di fermarsi ad attenderli, anche solo per un attimo. Al fondo di tutto resta una caparbia volontà di riscatto, un’aspirazione all’eterno sistematicamente negata che si trasforma nella chiusa sofferenza di chi smette di aderire alla vita o di chi si dispone a una lunga attesa che sembra valere per se stessa.

In una lirica, Nina, la protagonista, dopo una vita solitaria priva di affetti, viene scoperta “…col cappotto/ che spiava il mondo dalla serratura/ della porta”. Immagine dolente, certo, ma anche testimonianza di una forza interiore che non si rassegna alla solitudine e continua a spiare la vita che scorre nella speranza di poter afferrare l’attimo che le permetterà di entrare in quel flusso che potrebbe alla fine consentirle di scoprire nelle cose almeno un’ombra di senso. Le esperienze di dolore non si traducono, dunque, nel rifiuto della vita; sono piuttosto un valore aggiunto, un supplemento di significato. Lo ha scoperto la viandante che dà il titolo alla raccolta che, giunta alla sua ultima tappa, “scese dall’autobus/ … e sorrise / con le mani lievitate di terra e luna/ sorrise”.

Napoli, novembre 2008

Maria Antonietta Dattoli

Gabriella Gianfelici su “La ragazza con la valigia”

su IL GIORNALE DI LAGONEGRO
una lettura di G. Gianfelici
giugno 2009 – p.31
Scarica l’articolo in pdf:  il giornale di lagonegro, articolo ciancio

Questo delizioso, accurato e amorevole nuovo libro di Maria Pina Ciancio: “La ragazza con la valigia”, si apre con alcuni versi tratti dalla “Quinta elegia” di R. M. Rilke.
“Ma dimmi, chi sono, questi girovagli…più fuggitivi di noi… piombano sul tappeto consunto… posato lì…”
Ho pensato, leggendo i versi di Mapi, all’umanità dolente e vera cantata da F. De Andrè, ai personaggi di E. L. Masters in Spoon River, alle favole vere o inventate raccontate da nonna in nonna.
I delicati versi si possono leggere insieme o separatamente, la narrazione è fatta di piccole storie singole anche se accomunate per contesti sociali, per “definizione culturale”.
Ma Adalgisa, Nina, Marta… possono essere scambiabili con i loro nomi e creare più di una possibilità, molte di più rispetto al loro personale vissuto.
Ogni sezione ha il suo incipit poetico (Rilke, Rosselli, Banti) a sottolineare o introdurre ciò che leggeremo, numerose note dipanano la lettura circa i termini dialettali (bellissimi) e ricorrenze che possiamo non riconoscere o ricordare.
Sono molti i versi meritevoli e di grande impatto emozionale, versi che ci restano attorno, insieme alla grande compassione che trapela in questo tratteggio di vicende e vite umane. Le poesie narrano storie intessute di ricordi, quando si ama nulla si dimentica: “Dov’è…?” pag. 37, non si dimenticano neppure racconti di conflitti di guerra (pag. 49) e poi tutto torna tondo, e si apre e si chiude con “La ragazza con la valigia” ( pagg. 13 e 49).
Tutto è finemente impreziosito dai disegni di copertina e nell’ultima pagina del libro di Roberto Matarazzo, a cui vanno i miei complimenti e apprezzamenti sinceri.
Un sincero abbraccio di stima e di affetto.

Gabriella Gianfelici, Roma 7 dicembre 2008

Riferimenti sul web PoetiLandia

Proviamo a fermare il destino (con una valigia di splendore)

su Toscana Oggi – Rubrica “Semafori Letterari”
a cura di Michele Brancale
scarica la pagina in PDF
toscana-oggi-23-novembre-2008

Voci per dissipare sensi di ineluttabilità. Vogliamo chiamarlo «destino»? In teoria lo si rifiuta, ma in pratica quel grande insegnamento che viene dal popolo ebraico, per il quale ogni generazione doveva aspirare «ad essere migliore dei miei padri», è stato preoccupantemente messo da parte, nella trasformazione del cittadino in spettatore preoccupato tutt’al più di non affondare nei debiti e non perdere le quote di tranquillità raggiunte. In termini corali Benedetto XVI ha parlato del rischio di un congedo dalla Storia, ma è anche il problema del congedo dalle storie, dai volti, dalle vite del prossimo. Le storie di donne raccolte e raccontate da Maria Pina Ciancio ne La ragazza con la valigia (ed. Lieto Colle) suggeriscono un’alternativa e vi aspirano (in controtendenza con la tradizione verista). Tre le sezioni che compongono il volume, con le nove poesie de «Lo sguardo di terra annodato alla luna», le quindici de «Il filo delle rondini nere di ritorno» e le tredici de «Il premio della luce». Ci sono storie di destini ma anche di vite che sanno dire no al programma tracciato, a causa del quale nelle case «il presente è sempre altrove» e le carezze sempre senza
cura. Qui c’è una «ragazza con la valigia», quasi un ritratto dell’ingenuità che vince e che presiede al racconto delle vite di Adalgisa e Carla, Nina e Marta e, ancora, di altre otto figure femminili. Forse è una casualità che la ragazza con la valigia sia omonima di un film di Valerio Zurlini che da questo modo di sentire la vita degli altri era coinvolto. L’approdo che supera il destino è per Ciancio «il premio inaspettato della luce», la consapevolezza ritrovata di sè, quando si è in grado di riconoscere la terra della concretezza senza rinunciare alla luna dei sogni. La ragazza con la valigia allora torna e sorride, chiudendo con tenerezza l’album delle storie non solo raccontate ma amate e, anche in questo senso, salvate.

Toscana Oggi (Semafori Letterari a cura di Michele Brancale) 23 novembre 2008, p. 12

Fernanda Ferraresso su “La ragazza con la valigia”

da Fernirosso’s Weblog
arti nell’arte

“Siamo qui e altrove/ assotigliati al vento/ e alle parole (…) in mezzo al bianco/ che scandisce e svela/ i graffi e le ferite/ il premio inaspettato della luce”

Inizio quasi dalla chiusa, poichè la sosta avviene in prossimità di un’ uscita, anche se quella si rileva, ancora una volta quasi subito, un’ ulteriore partenza. La valigia è, in realtà, la casa intera ed è l’ insieme: di-stanze dentro le ossa, il nostro dna, il glob(ul)o del tempo nello spazio dell’esistere, non solo della singola esistenza. E’ principalmente questo, credo, che i versi di questa raccolta riescono a fiorire. Nell’interlinea tra la memoria e tue parole: lo stare di quelle dei “…santi”, quelli che definirei come Lari e Penati, nei reliquiari delle pagine di apertura.Tali divinità garantiscono ora quanto in passato garantivano ai nostri predecessori:la prosperità della casa e dei campi, erano parte integrante della vita familiare e si occupavano d’ogni attività dell’individuo. All’interno della casa, vi era un luogo, anzi il luogo del sacro, il fuoco dedicato a Vesta. Essa rappresentava, con la sua fiamma, la Vita. Per questo il fuoco non doveva mai essere spento. L’arduo compito era affidato alla mater familias. Di tanto in tanto, venivano gettate nel fuoco sacro delle briciole di pane. Credo che proprio questa sia l’ossatura su cui si regge la tua architettura poetica, che poi resta lavoro di quel campo in cui i semi da continuare a spargere sono la memoria di ogni altro lavorante e dei suoi raccolti. Parole radicate, nel terriccio umido di una storia ricca di humus di molte altre: vita di vite. Esplorare le radici non è cosa semplice, bisogna affinare sensi arcaici, bisogna per-mettere al corpo una muta (si deve cambiare pelle lasciando l’altra per strada, strisciando tra s a s s i, rischiando addirittura di lacerarsi, ma sono proprio le asperità che aiutano a completare la spogliazione. Non basta però eseguire questa trasformazione, serve, staccandosi da quella pelle, riuscire a guardarla, attraversandola in controluce, senza dissiparla, come fosse una mappa del cielo, limpidissimo, in cui le stelle sono celate, in piena luce (il premio inaspettato). Ecco, la serpe, meglio di qualunque altro essere, ha la possibilità di mostrare ciò che avviene in tempo di muta(zione). Scivola, la serpe, senza rumore, tra rocce grige, grigia anch’essa e vede, oltre se stessa, i colori delle maschere. Da una pelle all’altra del silenzio muto della carne, alla parola che si fa, per via, canto. RilKe rimanda a Cristina Campo, là dove “liso dal loro eterno saltare, questo tappeto” dall’altro lato del disegno, dove le magnifiche serpi si intrecciano, in realtà si intrecciano le vite, in un ordito che non ci è dato di vedere per intero, ma solo per frammenti, come la pelle della serpe, persa tra sassi e rami secchi. Il serpente, c’è da ricordare, è il simbolo del risanamento: il caduceo che identifica medici e farmacisti, è un segno di antichissima memoria. Ricorda chi lavora intorno al dolore, ne legge le scritture profonde, sempre abbandonate, infiltrate nel corpo dei globuli, nel sangue o nelle cellule che mantengono viva la vita, usufruendo persino della morte, sempre alla periferia di noi stessi, mai troppo lontana. Il serpente è anche simbolo del tempo, della ciclicità del tempo. L’anno solare si identifica come una serpe che si morde la coda (persino le mura della città, anticamente, venivano tracciate seguendo il senso del tempo, cioè seguendo il corso del sole, un fiume che continua il suo ciclo, senza interruzione, senza segnalazione che un cerchio, un anello, lo stesso simbolo delle nozze, poichè noi tutti siamo legati al tempo in una sola cerimonia nuziale, di cui appunto il tempo ci è con-sorte). Il tempo si mangia la coda, cioè si autodemolisce e si autoriproduce, nutrendosi di quel se stesso che ha corpo in noi, tutti, proprio come salta alla vista, percorrendo il corpo di questi versi, che hanno il visus di Adalgisa, Nina, Marta e altre donne ancora, una lunga fila, come fossero sempre una. Un po’ come accade con ADAMO, in cui è già racchiusa la promessa del Messia, uomo perfetto, chiamato a restaurare l’intera umanità nella sua integrità. Per la tradizione rabbinica, l’intera promessa è inscritta già nelle lettere del primo uomo, Adam: nella A si trova inscritto Adamo, l’uomo primitivo, creato da Dio nella perfezione dell’Eden. Nella lettera “da” troviamo inscritto David, come tipo del Messia, uomo vero davanti a Dio e agli uomini, nell’ultima “m” si delinea la promessa definitiva: il Messia, che rivelerà quale fosse la perfezione voluta da Dio per la sua creazione. Davide è l’anello di congiunzione fra il primo e l’ultimo uomo, fra il primo e l’ultimo Adamo – Cristo – Tutta la vita di Davide nella gioia e nel dolore, nel peccato e nella pietà verso Dio, diviene liturgia e ogni uomo è pietra di quel tempio che il Signore ha benedetto in eterno e che vibra al suo passaggio. Quel tempio santo che noi cristiani vediamo già glorificato nel corpo del Risorto, il Messia, l’Emmanuele promesso, che è discendenza di Davide è insieme Dimora di Dio in mezzo agli uomini. Non è un caso che il libro dell’Apocalisse, ultimo libro della Scrittura, termini con la promessa dell’adozione offerta a Davide, ormai aperta ad ogni figlio di Dio: Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio. Eppure, in queste pagine scritte in una discendenza declinata al femminile, si ribadisce la stessa tensione, brucia la stessa fiamma da cui il corpo impara se stesso, impara la carne da cui nasce. “Tu sana/venata di sole/porti sul grembo il cielo tutto azzurro…” Parte da un eden stracciato e ritorna coi fili separati, quindi pronti a ritessere trama e ordito, prendendo i vecchi di-segni, ri-ordinati in carte e cataloghi interiori, impossibili da dimenticare, poichè è il corpo, la sacca che tutti li contiene ( il continente in cui muovere, che ci muove lungo le sue vie). Le parole della scrittura come pietre, le stesse che il dio Hermes ha donato agli uomini e che gli uomini gli hanno riportato in costruzioni di cui ognuno è pietra con la sua stessa vita (tanto quanto appare nei Salmi di Davide). Il viaggio è lungo, tutti gli uomini e tutte le creature, i sogni, le paure e i misteri che l’universo con-templa in ciascuna generazione “dei” suoi esseri, e non ha soste, la vita (non) si inceppa nella “nostra” vita e non c’è treno che arrivi presto, se non in un immaginario che si isola in un quadro surreale. Andata-ritorno senza tornare mai nello stesso luogo, nello stesso sé, poichè il terreno è minato e la scrittura segna il suo percorso disinterrandolo, cancellando, franando i piccoli ponti che credeva di avere eretto facendo fondazione sulla lettura di cui si crede composta, fino al collasso della visione. Le rondini sul filo, sillabe sulla riga che si costruisce sulla bocca-fiato-bracere della vita che, intanto, ci tra-passa coi suoi p(a)esi gravi(di) di forme. E l’autrice-nutrice? L’autrice è Estia: la dea del fuoco che arde in ogni focolare rotondo. Ancora una volta a chiudere quel cerchio, da cui non ci si era allontanati mai. Figlia primogenita di Crono e di Rea (Era, ancora una volta circolarità e riflessione, scambio del senso) in una perfetta in-perfezione che tutt’ora vive in ogni cosa, dalle pozzanghere allo specchio, al silenzio carico di mute/voli voci-echi di chi sembra scomparso ma, in realtà, continua a bruciarci e ardere dentro noi come un segno nel cerch’io.

Fernanda Ferraresso

Teresa Armenti su “La ragazza con la valigia”

da IL SIRINO – Periodico Lucano di informazione, cultura e sport
Anno XIII, N.9/10 – Settembre/Ottobre 2008 – in Cultura, p.10
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Continua senza sosta l’iter poetico di Maria Pina Ciancio, che raggiunge l’apice nella raccolta “La ragazza con la valigia”, pubblicata nel giugno scorso dalla prestigiosa Casa Editrice LietoColle.
L’universo femminile si specchia nella pagina di copertina (realizzata da Roberto Matarazzo) con la valigia che volteggia tra le mani di una donna immersa nell’azzurro, “con lo sguardo di terra annodato alla luna”.
Le pagine patinate, elegantemente distribuite, trasudano sospiri affannosi, lunghi silenzi di braccia senza mani, carezze trattenute, rabbia repressa che sfocia in singulti e pianti convulsi, gridi di terra, cigolii di scale nei pozzi, trasalimenti e preghiere balbettate.
E’ la condizione della donna di ogni tempo che viene rivelata con delicatezza e pudore.
Sono storie sommerse che emergono in tutta la loro drammaticità.
Maria Pina Ciancio, con il suo solito stile raffinato, va alla ricerca di se stessa, della sua identità. Si mette in viaggio con la sua valigia rosso azzurra, non si ferma al superficiale, ma osserva gesti e comportamenti, scruta le profondità dell’animo, scova tra le rughe le miserie nascoste dalla maschera dell’ipocrisia, si pone in ascolto e, dove posa il suo sguardo, lì riveste di luce le persone emarginate, messe al bando dalla società.
Le sue poesie diventano allora racconti a volte sussurrati con un filo di voce, altre volte intensi e provocatori, altre volte disperati, senza futuro, intrisi di dolore, solo in compagnia di un libro di Bukowski e della solitudine, che non fa più paura, da quando la vita ha fatto scempio in lungo e largo.
Il florilegio si compone di tre momenti: Lo sguardo di terra annodato alla luna, Il filo delle rondini nere di ritorno, Il premio della luce, che sono opportunamente introdotti dai pensieri di R. M. Rilke, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Anna Banti.
Durante il viaggio, si snodano le storie sospese tra realtà e sogno, tra illusioni e delusioni, slanci e repressioni. Sono storie taciute, sfilacciate, vissute tra le quattro mura domestiche, diventano ballate di una donna con le sue bambole di pezza “che danzano leggere tra i salici dei fossi”.
Tanti nomi vengono alla ribalta; così Adalgisa viaggia senza pause; a Marta vengono offerti da un sordo sogni e parole in un bicchiere; Nina non ha il coraggio di uscire, ma spia il mondo dalla serratura della porta; Teresa mastica ingenua il sogno di bimbi e salta vittoriosa tra le fiamme; Carla, da sempre brava moglie, casa- lavoro, un bel giorno decide di liberarsi dalla routine e rincorre felice, senza rimorsi, il grembiule preso dal vento di marzo; Ada si nasconde sotto una luna di carta con in braccio il fagotto del peccato, per non sentire le urla delle donne nere che gridano allo scandalo; Fabrizia sull’autostrada nell’urto dilapida il cuore, il romanzo di una vita e pure l’appendice.
Maurizia aspetta sul primo gradino il treno.
Sono storie di donne, piene di graffi e di ferite, che vengono salvate dai “démoni”, aspettano il premio della luce dalla ragazza della valigia, che riesce a prendere tutto il loro dolore per trasfigurarlo nella poesia con le mani lievitate di terra e luna, sorridendo alla vita.
Il libro è risultato vincitore del Premio “PrataPoesia” (AV) 2008, ed è stato presentato in Calabria negli appuntamenti del “Settembre Culturale Francavillese – Valle del Raganello 2008.

Teresa Armenti