in CARTESENSIBILI
Il PONTE sulla via DEL SALE
di Fernanda Ferraresso
E’ di Storie Minime, di Maria Pina Ciancio, per Fara Editore, che sto iniziando a percorrere i segni, legni pregni d’acqua, di neve filata dal cielo per lunghi periodi, lunghi quanto stagioni di migranza, senza fine, senza fine, “n’eva-rio” in cui tutto si addensa per poi s-correre altrove.
E ci sono battenti, porte, cas(s)e, armoniche di finestre e spioncini, stanze e distanze popolate, spesse di spiriti, a(v) volte di fantasmi d’ uomini e donne, di poeti e gente comune. C’è sempre, spesso, e spesso-re il vento. Ti s’infila nella carne. Corre su asfalti che, per le abbondanti nevicate e le picchiate lancinanti del sole, senti s-greto-lati, frantumati i greti di fiumi in p(i)ena, per le tante anime che vi transitano o sono transitate, lasciando la loro impronta, orma che si stacca, una suola da calzare, sul bi-tu-me che la incolla, a(t)terra, dentro una scarpa(ta) in salita, in cui attraversare e c c e d e n t i nevicate.
Morde, quella neve, ti gela le vene. Nevicano queste pagine, una neve a volte lieve e soffice, altre più pesante come acqua caduta da volte di grotta, appena ghiacciata, da cui resti ferita dai fen-denti della memoria, vento caldo fiorito di cristalli dalla luminosità minima, ma precisa, schegge aguzze, acutissime e lisce, in quel gelo delle bolge infernali, in-ver-nate parole crude.
Ho parole calde e levigate
come strade d’asfalto stanotte
e un rivolo di sangue rappreso
in un vaso di paglia e terracotta
in cui custodire
semi di speranza e di certezze
per non morire ancora
senza corpo.
E poco prima aveva detto, quasi sospirando:
Hanno memorie le strade/ di Santi e mendicanti/ tracce di perdite e di incontri…
Ancora un’altra orma e vedi:
Sono carte geografiche/le piante dei miei piedi/ramificazioni di strade/che vanno e vengono/conoscono il tempo del ritorno/e il luogo generoso della sosta.
Anche se capita che:
Talvolta mi rimane indietro la strada /…/ Prendo fiato e torno con il piede/ nella neve (che s’allarga)
Tracce, sempre tracce, dovunque corsi di accademie non considerate e corsive segnature di università oltre il tempo:
Non ci sono statue nelle piazze di paese
ma solo una lotta di cani
(e angeli)
sull’asfalto gelato che si spella.
E in “frammento d’Inverno” la parola rovescia tutto il suo corpo, suono e taglio e sangue, morte che non si evita, è vita e si resta schizzati, s-porc(h)i, dentro quel macello dichiarato: rosso sul candido, bianco corpo della neve che dif-fonde la vena del sacro nel sacro,ventre e gola di un silenzio ancora una volta gravido, che es-pone il suo mostro.
Al mio paese d’inverno
la neve non era bianca
ma rossa di sangue di porco
Non c’è pagina dove la lotta non sia lotta per la vita, ed è comandamento, cui rispondere coi gesti, non con il fatuo sole di parole soffuse. Qui la parola spacca il ciocco delle ossa, un bosco curvo sotto il carico del freddo, freddo che pesa la vita. E manca il fiato, il petto resta schiacciato, sotto questi legni da bruciare, densi anch’essi di vene e neve:
Non basta indossare il vestito buono della festa per togliersi di dosso
i silenzi ininterrotti delle case o quelli dei volti incontrati ogni giorno
per strada mutevoli solo al gioco verticale delle luci o alle ombre dei pannistesi per strada che profumano di vita insieme al pane.
Pane e Pan, un panismo con cui mantenersi in vita, in un mondo orfico, sedi notturne e ghiacchiate, che del li-qui-do mare non sentono il richiamo. Da lassù, c’è il costato che sanguina, il cristo si fa minimo ogni giorno e di più, sempre di più, scompare, migra intridendo il cartone dentro le valige, spesse quanto la fede, antica, arcaica, arca in cui imbarcarci per sentieri oltre il nostro in-maturo con-fine, un mare al di là di quello solido dei monti.
E andando ancora per strada, allon-tanandomi da me in me stessa, ascolto le ultime voci che si liquefano, s f r a n g i a n o l ‘aria, teli di nuvola strappati tra i rami degli ultimi alberi, portati via come gli uomini, cresciuti su quelle zolle “tirate” con gli attrezzi della fatica, grande come le querce e come loro antica, lasciate a guardia del paese
…qui non importa a nessuno chi sei
importa soltanto con chi stai
…
Per ogni parola contro
ti lanciano un sasso
e poi ti schiacciano all’angolo
E’ così che resti solo con te stesso
…
Per noi che restiamo
la vita è una guerra senza guerra
senza elementi, né bombe
solo parola ubriache e smarrite tra le assenze
e l’erba già alta in mezzo al grano
della Pasqua.
Pasqua, dunque un germe di rinascita, un grano duro, dentro il seme della morte che, interrato, attraverso lei, ventre e calore del sangue in terra, in assoluto solare silenzio, nella disgregazione rivive e matura, es-tendendosi, da quell’ade a questi inverni in cui
la protesta ha bisogno di una passione e una stella danzante dentro gli occhi.
Una natività, nata dal buio di una cattività a cielo aperto, in cui si sta, tutti, come foglie.
Ma ci sono fiori tra le trincee di quella pelle d’animale, rosso sangue che schizza altre, storie nate da quelle che si lasciano sul foglio, spesso per paura o per pudore. Qui il pudore è onesta di parola che non è foglio, ma mano, lavoro, cose nate dalla quotidiana necessità.
E insieme agli uomini e alle donne ci sono gli animali, cani che se ne vanno per i viottoli o le vie semideserte, lasciando una scrittura di segni, orinando qua e là segnando porzioni di segnali a cui quel giallo accosta il bruciato o la senape più densa di un viaggio di sola andata/ una via di fuga forse/una morsa sfilacciata dalla resa. E anche le capre, animali domestici che però troviamo fuori, anch’esse soggette al vento, una tenace scrittura d’osso, il corno che c h i a m a permanente, innestato alla mente che vacilla, in quei pesaggi come scrittoi di un dio analfabeta che riesce a toccare il fulcro, i punti sacri e genera, vita e dolore, morte, abbandono spazzando tutto con il suo gesto inafferrabile.
Le partenze e i non ritorni sono cicatrici lunghe e oscure da curare.
Restano piazze spopolate, vi(n)coli che sanno ancora di neve, e sembrano le vene di un corpo unico, composto da quel pugno di vite chiuse intorno al vento. Si sente, il freddo qui, ti prende le ossa, senti quello scricchiolio che, ad un certo punto segnala quel non ritorno alla fioritura, la vita non può più essere (f)estiva, nemmeno l’amore riesce a miracolare un florilegio.
Non ti era bastato il mio amore
e neppure il mio pianto
Hai voluto fuggire prima del giorno
perché non vedessi
nel fondo degli occhi l’odore del viaggio
…
Ed eri un uomo d’onore
devoto a una donna e alla terra.
Non restano che le valige, l’emigrazione da una terra che non ti vuole, ad unache non sa il tuo nome, che non sa nulla di te e
Si arriva a un punto in cui non sappiamo più
dove orientare la voce
dove sederci ad attendere il silenzio
il passaggio della luce
E tutto stride, nella memoria che vorrebbe cancellare, o chiudere i cancelli del dolore, delle perdite, degli amici mai più rivisti, mai più abbracciati se non dentro, in quel vento che tutto rende minimo e ti scortica, ti ustiona, come gli orticai dell’abbandono, dove corre l’acqua di tante lavature, di panni, di piatti, giorni abitati tutti, in una vita i n te(r)r a.
30 giugno 2009
Fernanda Ferraresso